LA DEVOZIONE MARIANA NEL BASSO SALENTO IN ETÀ MODERNA E CONTEMPORANEA
LA MADONNA DELLA LUCE DI UGENTO
di Salvatore
Palese

Molteplici
sono i segni della devozione a Maria, la madre di Gesù di Nazareth, da parte
delle popolazioni di questa parte estrema della provincia di Terra d’Otranto,
posta tra il mare Adriatico e lo Ionio. Il “basso Salento” come lo denominò il
vescovo Ugento alla fine degli anni 70 del secolo scorso.
Chiese
parrocchiali, santuari, chiese devozionali, oratori privati, edicole rurali,
luoghi sacri degli insegnamenti rupestri senza contare le statue e gli altari
dedicati alla madre di Dio nelle chiese intitolate ad altri santi. Il fenomeno artistico e culturale non è
esclusivo di queste contrade, infatti, caratterizza la cultura popolare della
cristianità dei secoli medioevali e quelli di epoca moderna e contemporanea,
come l’ha originata la presenza di monaci e regolari, congregazioni religiose
maschili e femminili; in definitiva le popolazioni cristiane.
Negli ultimi
decenni sono state studiate con attenzione le testimonianze della religiosità
delle popolazioni salentine da storici e antropologi nei suoi sviluppi prima e
dopo le definizioni di fede che i cattolici hanno chiesto e accolto, sulla
condizione privilegiata di Maria, la madre di Dio, concepita senza peccato
(1854) e, dopo la morte, assunta in anima e corpo nella gloria divina (1950).
Sono oggetto di studio anche la pratica dei donativi di supplica e gli ex-voto di ringraziamento nei santuari,
le innumerevoli preghiere e canti popolari composti nell’arco dei due millenni;
infine lo sviluppo dei pellegrinaggi ai santuari maggiori e minori,
vicinie lontani, ed ora diventati
frequenti e affollati.
Nella città
di Ugento domina la grandiosa Cattedrale dedicata all’Assunta nel 1743, sulle
altre come la chiesa dedicata all’Assunta registrata nel 1559 dal vescovo
visitatore Antonio Sebastiani (Minturno) e come la cappella della Madonna delle
Grazie detta volgarmente “del curato” che i benedettini eressero nel 1607. Alla
fine dell’800 la famiglia Grecucci costruì la Madonna del Rosario, sulla via
che porta al mare.
Nei suoi
dintorni primeggia la chiesa della Madonna della Luce su quella della Madonna
di Costantinopoli e quella della Madonna del Casale Monserrato dalla facciata
medioevale rimaneggiata al suo interno nel 1752. Infine, la parrocchiale di
Gemini intitolata alla Visitazione, detta pure “del Soccorso”, dove il vescovo
Agostino Barbosa stabilì la parrocchia nel 1649, a vantaggio degli abitanti del
piccolo casale, feudo dei vescovi ugentini.
Ma pure in
altre chiese ricorrono altari intitolati ai vari misteri mariani e con
denominazioni locali e popolari.
In esse, come
nelle altre, sono pervenuti affreschi e raffigurazioni su tela in cui la
devozione è espressa con i linguaggi pittorici più antichi, quelli cioè che
erano propri della koiné artistica
mediterranea, quella dei tempi in cui l’oriente e l’occidente erano più vicini
di oggi e i gruppi di rito diverso erano mescolati tra loro, come lo erano in
queste contrade del basso Salento e altrove. Ed anche quando la latinizzazione
del culto prevalse in modo esclusivo, le popolazioni conservarono le devozioni
tradizionali. Un esempio lo si può riscontrare nei canti popolari.
L’entusiasmo
mariano del Novecento ha originato congressi ovunque. Senza dimenticare l’anno
santo mariano che Pio XII volle nel 1954 e, nel basso Salento, la integrazione
del titolo della diocesi Ugento – S. Maria di Leuca nel 1959.
La dignità di
Maria Vergine e Madre ha avuto una eccellente illustrazione nel capitolo VIII
della costituzione dogmatica sulla chiesa (Lumen
gentium, 32-69) con il recupero di tutti gli elementi della tradizione
cristiana delle chiese orientali e di quelle occidentali (21 novembre 1964). È
seguita poi la proclamazione del suo ruolo sul popolo cristiano con il titolo
“Madre della Chiesa” che Paolo VI fece nel discorso di chiusura della III
sessione del concilio Vaticano II. Non va dimenticato che in questo clima
religioso svilupparono spiritualità e devozioni, testi cultuali e letteratura,
nonché espressioni artistiche di ogni genere, alimentate pure dall’esortazione
apostolica Marialis cultus (2
febbraio 1974) dello stesso pontefice. Ad essa seguì la enciclica Redemptoris mater (25 marzo 1987) di
Giovanni Paolo II, il quale, tra l’altro, richiamò l’attenzione dei teologi
sulle testimonianze della cultura popolare.
Non è
scontato che questo contesto culturale e spirituale, abbia caratterizzato il
modo e il senso dell’andare dei pellegrini al santuario della Madonna della
Luce. Di fatto gli ugentini divennero pellegrini a questo tempio mariano, non
lontano dalle loro case. Si può dire che il loro fu un pellegrinaggio
familiare, come c’è da immaginarlo, considerando il vissuto sociale di quei
secoli dell’età moderna.
La sua
esistenza è precedente al 1588, come scritto sull’architrave dell’ingresso
maggiore. Infatti, si vedono ancora delle strutture superstiti con coperture ad
arco spezzato, la finestra rimasta e i lacerti di affreschi, belli in verità,
ci fanno ipotizzare che quel luogo di culto risalga al secolo X-V. Mancano però
riscontri monumentali o documentari. In verità tanto ci manca per il nostro
studio.
Infatti,
queste contrade furono coinvolte nello sgretolamento del principato di Taranto
con guerre e distruzioni. Si pensi pure al saccheggio dei turchi quando
nell’agosto 1480 irruppero nel basso Salento e senza contrasto lo dominarono
fino al termine dell’anno seguente. Anche i signori di Ugento furono coinvolti
nella guerra franco-spagnolo del 1529-1529 e Carlo V li processò, li destituì e
poi li riammise “perdonati”. Non possiamo dire tutto quello che avvenne con lo
sbarco dei turchi nell’agosto 1537, ad Ugento, come a Castro: è certo che delle
distruzioni di quell’anno è rimasto il ricordo più forte. Tutte queste vicende
costrinsero le popolazioni a trovare protezioni per l’esistenza delle famiglie
e per i campi da loro lavorati a vario titolo. A loro onore, un visitatore di
queste contrade, intorno al 1527 ha scritto: «Tutti questi luoghi sono ben
coltivati et ornati di belle vigne, d’olivi, d’aranci e d’altri simili alberi
fruttiferi che paiono grandi giardini, dando gran piacere alli riguardanti».
Anche la
storia dei vescovi cambiò decisamente dopo il 1563 quando si concluse il
concilio di Trento. La costruzione del santuario ugentino si colloca negli anni
che seguirono la vittoria cristiana a Lepanto nel 1571. Il vescovo carmelitano
Desiderio Mazzapica, voluto da Filippo II e nominato da Pio V il 6 settembre
1566, dotto e deciso, fu il protagonista di questo santuario e valorizzò nel
suo lungo episcopato fino al 1593, l’ondata di devozione mariana originata dal
miracolo del 1563.
I recenti
restauri hanno riportato il santuario della Madonna della Luce allo splendore
antico, sia pure parzialmente. Esso, dal 1588 ad oggi, costituisce il
riferimento mariano più solenne della città.
Il santuario
è nella pianura sottostante, a settentrione, sulla sinistra della strada che da
Melissano conduce a Ugento. Quando questa non c’era ancora il santuario era
sulla strada che veniva dalla cripta del Crocifisso e ancor più da lontano, che
per secoli portava i pellegrini della perdonanza verso il santuario di santa
Maria de finibus terrae, alla fine
del “capo” salentino di Leuca tra i due mari. Chi la percorre ancor oggi rileva
subito che il suo pino è sottoposto al livello dei campi che attraversa, ed è
affiancata da muri a secco, alti e ben costruiti con pietre ben sistemate. È
certamente un percorso ultra millenario che conserva un fascino particolare nel
tratto da Casaranello a Ugento e oltre.
***
Del santuario
hanno scritto Giacomo Arditi nel 1879 e Cosimo De Giorgi nel 1882, e poi
Pasquale Urso nel 1941, il vescovo di Ugento Giuseppe Ruotolo nel 1952,
Francesco Corvaglia nel 1976; ma tutti si limitano a riportare la tradizione
che si ripete a riguardo dell’origine e della costruzione del santuario.
Di recente, Luciano Antonazzo ha compiuto pazienti ed accurate ricerche negli
archivi dei vescovi ugentini e del Capitolo della cattedrale, nonché tra quelli
notarili conservati nell’Archivio di Stato di Lecce, con risultati notevoli
sulla vicenda di quel santuario negli ultimi cinque secoli. Queste ricerche
sono continuate anche dopo che nel 2005 ne disse nella Guida della città millenaria.
Di questi risultati ci siamo informati e ce ne siamo avvalsi per questa nota.
Si racconta
ancora, per tradizione, che l’attuale santuario è legato alla miracolosa
guarigione del sacerdote Didaco di Vittoria, di Afragola, cieco. Insieme con la
sorella Teresa, era pellegrino verso il già noto santuario di Leuca e si era
riparato tra le rovine di un’antica chiesa mariana distrutta dai turchi nel
1537 insieme con l’intera città ugentina. Egli avrebbe visto una lastra lapidea
con l’immagine della Madonna, che un cane raspando nel terreno, aveva fatto
riaffiorare. I fedeli accorsi numerosi, richiamati dal miracolo, insieme alle
autorità religiose, da allora chiamarono quella chiesa “Madonna della Luce”.
Tutto questo sarebbe avvenuto nel 1563. Ma non si hanno riscontri documentari. Nel
1563 era vescovo ugentino Antonio Sebastiani Minturno, da Traetto in Campania,
nominato da papa Paolo IV il 27 gennaio 1559 e trasferito a Crotone il 25
luglio 1565, dopo aver partecipato al terzo periodo del concilio di Trento
degli anni 1562-1563.
Tuttavia, pure le leggende originano fenomeni storici, come quello della
devozione dell’intera città, semplici fedeli, clero e vescovi compresi, a
quello che divenne il santuario mariano maggiore dell’età moderna e
contemporanea. Tutto ciò fa parte della storia di questo territorio e oltre.
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In verità non
mancano dati sicuri, come le testimonianze giurate degli anni 1593-1595 in base
alle quali si può affermare che negli anni 1577-1583, qualcosa di nuovo stava
avvenendo intorno all’antica chiesetta dei secoli precedenti, posta lungo la
strada che passava di lì. Quella chiesetta era stata anch’essa travolta dai
turchi nel 1537, ma se ne possono vedere i resti nel locale retrostante
dell’attuale sacrestia, con la bella volta a crociera e con due lunghe finestre
medievali, e i resti di affreschi sulle pareti.
Nel 1576 il
vescovo carmelitano Desiderio Mazzapica (1566-1593) avviò la costruzione di un
edificio più ampio facendo abbattere gran parte della struttura precedente,
capace di accogliere il crescente numero di fedeli pellegrini. I lavori
durarono per un decennio e a conclusione fece porre sull’architrave
dell’elegante porta d’ingresso, un cartiglio lapideo con la incisa iscrizione
DEI MATRI DICATUM – 1588.
È il santuario che oggi si ammira.
Probabilmente
anche la precedente chiesetta medievale aveva lo stesso titolo. Esso compare
anche altrove, come ad esempio, già a Lecce nel ‘400, quando liberò la città
dalla peste, a Vernole, alla metà del ‘500. Nel 1593 «si fabbricò la chiesa di
Santa Maria della Luce» a Lecce, al tempo del vescovo Scipione Spina, come
riferiscono le cronache della città. Nel secolo seguente sarebbe stata costruita
la chiesa dello stesso titolo a Galatina.
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Anche la
nostra di Ugento è una chiesa interessante. La navata è unica, lunga «10 passi
e larga 6» (vale a dire m. 17,8 x 11 a pieno, e m. 15,5 x 9,4 a vuoto),
costruita «testudineo more», con quattro pilastri che emergono all’esterno e
altri sei che si vedono solo all’interno. Su tutti questi pilastri si poggia la
volta a botte, lunettata con raccordi con i sei pilastri interni: essi ritmano
lo spazio sul quale la volta sembra ricoprirli insieme, come una grande
coperta. La luce scende da quattro “occhi” circolari con cornice lapidea
esterna, e dagli ingressi, quello principale a ponente e quello minore a
settentrione. Il pavimento è uguale e ben disposto. Sull’altare maggiore,
sopraelevato da due gradini, è circoscritto da uno steccato ligneo e l’immagine
della beata Vergine tra due colonne dipinte di rosso, disposti ad architrave,
come un tempietto.
Dal
presbiterio, attraverso due varchi, si accede a quello che era il coro del
santuario, ora in realtà è la sacrestia quadrata con volta a crociera: è quanto
rimane della chiesetta medievale precedente. Accanto ad essa c’è ancora il
locale con copertura a testuggine, destinata all’oblato che custodiva il santuario, abitandovi stabilmente, con il
focolare e con accesso dall’esterno.
La facciata
della chiesa ha una sua “rozza bellezza”, con il grande rosone e il portale
d’ingresso, entrambi ornati con cura. A guardarla, sorge il sospetto che la si
voleva più alta. Non si conosce chi la abbia pensata e realizzata e neppure
sono documentabili i tempi della sua costruzione. Si prende atto della data
posta sull’ingresso principale. Comunque lo stile architettonico di questa
chiesa ugentina trova riscontri posteriori con la chiesa parrocchiale di
Acquarica del Capo, aperta al culto nel 1619, e con quella di Santa Maria di
Pompignano nel feudo circostante.
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Una decisione
importante per la storia del santuario fu quella del vescovo Pietro Guerriero
(1599-1610), che con lungimiranza, nel 1600 assegnò la chiesetta e tutta la sua
dotazione al Capitolo della cattedrale ugentina, con generale soddisfazione. Ma
in realtà il Capitolo ne entrò in possesso nel 1621.
Una
descrizione completa di tutta la suppellettile necessaria al funzionamento
liturgico e religioso è data nel 1628. Il vicario generale del vescovo Ludovico
Ximenez (1627-1637), mercedario spagnolo, il 17 agosto registrò l’insieme dei
segni della devozione popolare che si era sviluppata nel corso di quattro
decenni: una lampada con il piede d’oro bene elaborato, con una piccola lampada
ardente, al lato destro dell’altare maggiore, e i molti ex-voto di cera, d’argento e di ferro sui due lati dell’arcata
sovrastante l’altare maggiore.
Erano i segni che avevano lasciato i devoti, come pure erano, e sono ancora,
l’altare di santa Maria dell’Arco e quello di san Donato, entrambi sul lato a sinistra.
Ciò che
meravigliò il visitatore, e lo scrisse in conclusione del verbale che noi
leggiamo nella trascrizione fattane da Luciano Antonazzo: «tutto intorno vi
sono molte pitture sui muri». Di alcune oggi si legge la data, di altre si è
sbiadita o perduta. Sembrano i momenti della crescente devozione al santuario.
Anche le
donazioni che con precisione aveva fatto annotare il vescovo Guerriero nel
1600, che noi conosciamo dai documenti rintracciati da Antonazzo, erano non
poche, ma in definitiva piccole cose. Ciascuna di esse, però, esprimeva il
desiderio di assicurarsi un lungo ricordo, post
mortem, nella celebrazione della santa messa, ma pure gratitudine e
accaparrarsi celeste protezione.
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Al centro
dell’altare maggiore vi è l’immagine della metà del Cinquecento, quella del
miracolo, che a noi è arrivata mutila della forma originaria e integrata
successivamente delle parti perdute. Ce lo hanno detto i recenti restauri del
2009. L’immagine non spicca in bellezza, ma è ricca dell’affetto per circa
cinque secoli gli ugentini hanno coltivato verso la madre del bambino Gesù.
Migliore è la
visione degli altri affreschi e se ne può dare pure la cronologia fissata
dall’Antonazzo:
1604, santa Caterina d’Alessandra e san Leonardo
1610, la crocifissione
1611, santa Venera
1611, santa Lucia
1611, Vergine di Costantinopoli
1617, sant’Antonio Abate
1620, Vergine Incoronata
1628, santa Venera
1628, Gesù e la Samaritana
1628, Gesù
sacramentato adorato dai ss. Francesco d’Assisi e
Francesco da Paola
1636, un santo
mercedario
Altri nove
affreschi non datati, ma coevi più o meno ai primi, sono lungo le pareti e sui
pilastri: una Madonna in trono, una Madonna dell’arco, santa Teresa d’Avila,
una seconda Madonna in trono, san Donato, la Madonna del Rosario con i santi
Domenico e Caterina da Siena e lungo i tre lati dell’affresco i quindici
misteri della vita di Gesù ricordati nella recita del Rosario, la Madonna con i
fedeli del purgatorio, quella del Carmine, ancora le sante Venera e Caterina
d’Alessandria, infine l’Annunciazione di Maria.
Anche nel
coro, ora sacrestia, sul muro retrostante l’altare si vedono una crocifissione
e i resti di un altro affresco con un angelo e l’iscrizione “Santa Maria”.
Tra i santi
raffigurati ne compaiono in una certa evidenza due, di santi che erano stati di
recente canonizzati: Santa Teresa d’Avila (1515-1582) che Gregorio XV aveva
elevato agli onori degli altari il 1622, e Raimondo Nonnato (1200/1204-1240)
beatificato da Urbano VII il 9 maggio 1626.
Ogni vescovo promuoveva le devozioni dei suoi santi patroni.
La
identificazione di quest’ultimo è stato oggetto di discussione, a causa di una
iscrizione che si legge sull’affresco, riferisce del titolo di cardinale della
chiesa romana di Sant’Eustachio a Roma nel 1327. Recenti studi hanno accertato
che Raimondo Nonnato non fu mai cardinale, come invece voleva la tradizione
agiografica che circolava tra i mercedari; vero è, però, che fu chiamato da
Gregorio IX a Roma e morì durante il viaggio. Nel mercedario raffigurato si è
voluto vedere lo stesso vescovo ugentino Ludovico Ximenez, mercedario anche lui.
Oltre gli
affreschi, sono interessanti i graffiti antichi che ricorrono su di essi. Ad
esempio quello del 1578, al centro dell’architrave, attesta quanto rimane della
chiesa precedente; anche gli altri sette, lasciati dai pellegrini nel corso
degli anni 1591-1648, nel retro dell’antico altare. Ancor più eloquenti sono
quelli datati del 21 febbraio 1610 e del 25 marzo seguente che attestano
rispettivamente la presa di possesso da parte del vescovo Giovanni Bravo
(1610-1627) e la visita che egli stesso fece al santuario.
Significativo
è quel accepi lumen oculorum - 1620,
graffito riportato sul ricordato affresco della Madonna incoronata dagli
angeli.
Affreschi e
graffiti sembrano tutti degli ex-voto.
Ciascuno esprime, come si è accennato, uno slancio di devozione, legato al
ricordo di una esperienza vissuta, con perenne gratitudine.
Santa
Caterina d’Alessandria era onorata protettrice dei barbieri, dei mugnai, dei
prigionieri, delle filatrici e delle ragazze da marito, dei filosofi, degli
arrotini, contro le malattie della lingua; san Leonardo da Nobliacum, protettore
dei carcerati e dei fabbri ferrati, dei prigionieri e delle puerpere e di
quelli in difficoltà in particolare, a difesa dei briganti e per scongiurare la
grandine; sant’Antonio abate, protettore degli anacoreti, degli allevatori di
animali, dei suini e dei tosatori, dei campanari, dei pizzicagnoli, dei
macellai e dei salumieri, dal fuoco di sant’Antonio, dalla scabbia e da ogni
malattia contagiosa; san Raimondo Nonnato, protettore delle ostetriche e degli
schiavi; santa Lucia, protettrice dei malati degli occhi e dei ciechi.
Per tre volte
ricorre l’immagine di santa Venera,
come in molte località dell’Italia meridionale era detta la vergine Parasceve, martire
romana del II secolo; raffigurata pure nella chiesa di santa Caterina a Galatina
e ancor prima nella più vicina di santa Maria della Croce a Casarano e nella
cattedrale di Nardò.
Infine, i
santi Francesco d’Assisi e Francesco di Paola, distanti 200 anni l’uno
dall’altro, insieme adoranti il SS. Sacramento nell’ostensorio, agli inizi
della devozione eucaristica moderna.
L’approfondimento
iconologico degli affreschi darebbe un contributo alla storia religiosa ugentina
e alla conoscenza della evoluzione delle devozioni popolari tra Cinquecento e Seicento,
quando si verificò la progressiva latinizzazione della cultura religiosa. L’attenta
lettura delle immagini dei santi, potrebbe rilevare elementi superstiti delle
modalità figurative di matrice bizantina, com’era stato il rito in molte chiese
salentine. Latini e bizantini erano stati mescolati in queste contrade.
Ci sembra
superficiale pertanto il giudizio di chi vuol trovare in queste pitture
eleganza formale, stile, tonalità dei colori, precisione del disegno: i
frescanti, poveri pittori anch’essi, obbedivano alle richieste dei devoti
desiderosi di soddisfazione generosa. Ma non si può negare che tuttavia, nei
volti di alcune di queste “sante ugentine” si ritrovano tracce di bellezza che
attira e affascina. Oltre agli affreschi, sono interessanti i graffiti antichi
che ricorrono su di essi. Ad esempio quello del 1578, al centro
dell’architrave, attesta quanto rimane della chiesa precedente; anche gli altri
7 lasciati dai pellegrini nel corso degli anni 1591-1648, nel retro dell’antico
altare. Ancor più eloquenti sono quelli datati del 21 febbraio del 1610 e del
25 marzo seguente che attestano rispettivamente la presa di possesso del
vescovo Giovanni Bravo (1610-1627) e la visita che egli stesso fece al
santuario.
Come si è
detto, i decenni tra il 1588 e il 1648 furono decisivi per definire la
condizione di questa chiesa mariana nel territorio ugentino. La Madonna della luce
era forse l’ultima tappa dei pellegrini che provenivano dalla cripta del
Crocifisso e dalla chiesa della Madonna di Costantinopoli, dalla non lontana e
antichissima santa Maria della Croce di Casaranello o da più lontano, prima di
entrare nel suburbio cittadino per la “strada messapica”, passando dalla chiesa
di San Lorenzo, dalla chiesa dei Celestini - volgarmente detta della Madonna
del Priore - e quella infine dei Santi Medici Cosma e Damiano
e proseguendo poi, oltre la città, lungo percorsi a noi sconosciuti che
portavano verso il più profondo Capo di Leuca. Si potrebbe dire, alla ricerca
di Maria “la madre degli umili” (André Vauchez). In alto era l’acropoli
ugentina con il possente castello medievale dei d’Amore, la chiesa cattedrale
dei vescovi e dei canonici, il vicino convento di Santa Maria della Pietà dei
Francescani minori e la loro chiesa di Sant’Antonio, e il monastero femminile
di San Benedetto, tutti collegati tra loro con un reticolo di strade sulle
quali si affacciavano le abitazioni delle famiglie più importanti della città.
***
Non si
conoscono evoluzioni significative della nostra chiesa mariana nei secoli
seguenti quando la società ugentina fu segnata dalla presenza efficace di
vescovi residenti e legiferanti e la città fu coinvolta nella grandiosa impresa
architettonica della nuova chiesa cattedrale (1718-1743). Si sa soltanto che
nei mesi a cavallo del 1742-1743 gli ugentini furono sepolti anche alla Madonna
della luce. Le
poche cose che avevano costituito il suo patrimonio non compaiono da nessuna
parte nel noto “catasto onciario” redatto alla metà del secolo Settecento e probabilmente
anche in quello murattiano del primo decennio dell’Ottocento.
Comunque la
devozione degli ugentini non subì ostacoli e continuò ad esprimersi. L’Arditi
accenna al restauro «a volontà e spese del cantore Colosso Juniore».
L’accesso alla chiesa fu facilitato quando si realizzò la strada provinciale
per Casarano alla fine del secolo e sulla sagrestia fu costruito un piccolo
campanile a vela.
Il vescovo
Vincenzo Brancia (1890-1896) trovò «indecenti» le condizioni della chiesa nella
sua visita pastorale del 16 aprile 1890, sollecitò il Capitolo della cattedrale
alle sue responsabilità, e chiese ai sacerdoti della diocesi di aiutare i
canonici per i necessari restauri e chiamò tutti gli ugentinti a collaborare «perché
un edificio sia antico e tradizionale per i meravigliosi miracoli e per l’alto
riconosciuto sentimento di questo popolo di Ugento e dei paesi limitrofi non
arrivasse a distruggersi».
La raccolta delle offerte servì a finanziare il consistente restauro
all’ingegnere Giuseppe Epstein di origini austro-ungariche che aveva messo casa
ad Ugento sposando l’ugentina Paola Rosa Cucci. Egli era stimato per altri
lavori di pubblica utilità. Nel restauro dei primi anni del Novecento egli
ripulì parte dei 35 affreschi liberandoli dalla imbiancatura che in modo
vandalico era stata sovrapposta, intonacò l’edificio, vi fece le porte,
all’esterno creò un piazzale circoscritto da un muretto chiuso da un
cancelletto attraverso il quale si poteva accedere alla chiesa. Infine, egli
fece la pavimentazione interna ed esterna e quella superiore. Non si può dire
però in che modo egli pose riparo agli affreschi.
In questo
clima di rinnovamento il vescovo Luigi Pugliese (1896-1923) avviò
un’associazione sotto il titolo della Madonna della luce affidandone la cura al
canonico don Agostino de Razza, al canonico teologo don Giovanni Cantoro, al canonico
penitenziere don Felice Maritati, ai mansionari Corvaglia, Riso e Quarta, sotto
la sua presidenza. L’associazione fece costruire una statua nuova, comprò un
armonium, commissionò delle pianete nuove e organizzò festicciole. E poi i
sacerdoti suddetti sostenevano le spese lasciando le elemosine delle offerte
delle messe all’associazione.
Per il vescovo Pugliese la Madonna della
luce divenne il santuario ugentino.
Inoltre, la Congregazione concistoriale il 15 gennaio 1910 riconosceva al
vescovo la decisione di dichiararlo santuario.
Altri restauri
furono compiuti nel 1925 e i maggiori finanziatori furono Pantaleo Provenzano e
la moglie Anna dei baroni di Cicala; essi chiesero al pittore Giovanni Stano
(1871-1945) di Manduria una grande tela che raffigura il miracolo del cieco di
Afragola che fu collocata sull’altare maggiore e ora la si può vedere nella
controfacciata all’ingresso maggiore del santuario.
Non è
pervenuta molta documentazione, se mai fu prodotta dal Capitolo della
cattedrale, riguardante la storia religiosa del santuario. Le osservazioni dei
vescovi durante le visite pastorali non sono rilevanti. Ma si può soltanto
immaginare il pellegrinaggio di tante madri e spose per chiedere le grazia di
notizie o il ritorno dei loro cari lontani durante le guerre del primo
Novecento, o emigrati in regioni lontane in Italia e in paesi europei e oltre,
nei decenni centrali del secolo ed infine nei decenni seguenti della seconda
metà. La società ugentina è rimasta segnata dalle grandi trasformazioni
economiche e culturali, grazie pure al crescente numero di visitatori turistici
attratti dalle bellezze naturali del Salento.
Nel 1983, con
la dichiarazione del 22 aprile, da parte della Soprintendenza dei beni
Architettonici e Artistici di Puglia, il santuario venne riconosciuto di
interesse storico e artistico, meritevole perciò della tutela dello Stato
italiano. E quindi si provvide a restaurarne le condizioni. Perciò nel 2009 si
è potuto intervenire ancora una volta con il radicale restauro della struttura
e degli affreschi, riportando l’antico santuario al suo rinnovato splendore. Il
restauro è stato diretto dall’ing. Giorgio Rocco De Marinis su richiesta del
parroco don Pietro Carluccio.
L’intervento, all’interno, ha risarcito alcune lesioni poco profonde ed ha
comportato lo svellimento dei pavimenti esistenti e il loro ripristino dopo la
costruzione di un vespario areato, la revisione e sostituzione degli infissi deteriorati, il
ripristino del vano finestra sul lato meridionale della sagrestia, il
rifacimento dell’impianto elettrico, idrico e fognante, del bagno e degli
intonaci della sagrestia e del locale annesso, la tinteggiatura delle volte e
delle pareti, il restauro degli affreschi, a cura di Mario Catania da Lequile.
Questi affreschi erano soltanto 19; 14 di quelli contati dall’Epstein erano
scompari. All’interno si era proceduto con la formazione di una intercapedine
areata e all’impermeabilizzazione lungo il perimetro dell’edificio. Alla
costituzione di una rete di fogna bianca con relativi pozzetti per la raccolta
delle acque piovane a ripristino della pavimentazione esterna con formazione di
basolato in corrispondenza del sagrato e della zoccolatura perimetrale, al
ripristino del rivellino di coronamento dei muri d’attico, alla scrostatura e
rifacimento degli intonaci, alla tinteggiatura in latte di calce, alla posa in
opera di pluviali con relative vaschette di raccolta in rame, alla revisione e
sostituzione degli infissi, al ripristino delle pavimentazioni solari, alla
rimozione a al ripristino della gradonata esterna, al restauro degli elementi
scolpiti in pietra leccese nei portali, nei rosoni e nelle cornici.
Non deve sfuggire che il restauro del 2009 si colloca,
almeno cronologicamente, nel fenomeno della rinascenza
ugentina che ha caratterizzato i decenni del secondo Novecento dell’antica
città. Prima il recupero definitivo del complesso che era stato il monastero
delle benedettine, destinato nel 1975 a diventare sede del Municipio cittadino, con il rispetto del chiostro
monastico e della chiesa delle monache che per secoli l’avevano riempita di
preghiere e devozione, infine sala consigliare con i dibattiti per l’avvenire
dei cittadini, ora spazio destinato per gli eventi culturali. Frattanto si è
recuperato il grandioso convento di Sant’Antonio che era stato dei frati minori
francescani: radicalmente restaurato negli anni 2000-2005 e destinato a
diventare Museo civico archeologico. Anche la chiesa è stata completamente
restaurata e riportata al culto nella primavera del 2000. La Guida di Ugento di Luciano Antonazzo e
curata da Mario Cazzato per la benemerita casa editrice Congedo di Galatina e
stampata nel 2005 sembra il segno compiuto della rinascenza culturale della
città. Essa infatti era stata sollecitata “dall’invasione turistica” di ogni
estate e quasi originata dall’interesse degli ammiratori del mare, dei
desiderosi pure di conoscere il retroterra salentino.
Il restauro
della Madonna della luce era dentro questo processo rinnovatore che ha poi
coinvolto anche la maestosa cattedrale settecentesca dei vescovi dell’età
moderna e l’antico castello medievale che forse fu baluardo all’invasione turca
del 1537, divenuto palazzo marchesale dei d’Amore.
Per
concludere la narrazione di questa lunga vicenda religiosa e culturale del
santuario della Madonna della luce, va detto infine che con gli assetti
organizzativi delle istituzioni ecclesiastiche, definiti nel 1986, la scomparsa
del Capitolo della cattedrale e lo sviluppo dell’organizzazione parrocchiale di
Ugento, il santuario della Madonna della luce è affidato al parroco della
parrocchia di Santa Maria in Cielo che ne ha assunto la cura responsabile, con
il sostegno dei devoti e con quello proveniente dai cittadini italiani.
***
Sembra
opportuna una considerazione finale. L’ultimo restauro conservativo di un
monumento significativo della devozione mariana degli ugentini nel corso dei
secoli dell’età moderna e contemporanea, avrà la sua piena valorizzazione
quando saranno recuperate le radici e la linfa del sentimento religioso che ha
originato ed espresso questa chiesa. Culti liturgici e devozioni popolari sono
provocati ad assumere “forma nuove” o “modalità nuove”, dal mutato contesto
culturale in cui sono sommersi i cristiani della città di Ugento e dei suoi
dintorni del basso Salento, negli avvii di questo millennio. Saranno
protagonisti di questi sviluppi, come in passato, gli educatori alla fede
cristiana e i tanti credenti in Gesù che, a Maria sua madre continueranno - gli uni e gli altri - a chiedere la luce per
vedere i percorsi delle vicende personali e dei destini dell’intera umanità.
G. Arditi,
La corografia fisica e storica della
Provincia di Terra d’Otranto, Lecce 1879, p. 634; C. De Giorgi, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Tip. Giuseppe
Spacciante, Lecce 1882, nella edizione anastatica, vol. II, Congedo, Galatina
1975, p. 195; P. Urso, Ugento attraverso la storia, Tip.
Arcivescovile, Taranto 1941, p. 94; G.
Ruotolo, Ugento-Luca-Alessano, cit
p. 188; F. Corvaglia, Ugento e il suo territorio, Ed. Salentina,
Galatina 1976, p. 112; Atlante del
Barocco in Italia, cit.
L. Antonazzo, Guida di Ugento, cit., pp. 107-111, dove sono editi alcuni affreschi.
ARCHIVIO STORICO DIOCESANO UGENTO (=ASDU), Archivio del Capitolo di Ugento,
documenti, 4,9-14 e 15-33.
Cfr. P.
Gauchat, Hierarchia catholica
medii et recentioris aevi, IV, Monasterii 1935, p. 351. Interessanti sono
le notizie raccolte da Mauro Ciardo,
La controriforma nel basso Salento (nuovi
documenti), Grifo, Lecce 2014, p. 67-85. Va corretta però la data di inizio
del suo episcopato che è 1566 e non 1563.
Cfr. L. Manni,
Il galatinese arcivescovo Gabriele Adarzo
de Santander (1599-1674) e la Madonna della luce, in “Contributi e
documenti per la storia di Galatina”, Ed. Salentina, Galatina 1996, pp. 79-84; Cronache di Lecce, a cura di A. La Porta, Grifo, Lecce 1991, p. 20.
ASDU, Archivio
del Capitolo di Ugento, documenti 4, 9.
Per cenni biografici dei santi raffigurati e
notizie riguardanti culto e devozioni, nonché la bibliografia si rinvia alle
note firmate da autori specialisti e disposti in ordine alfabetico delle
singole voci, alla nota e diffusa Bibliotheca
Sanctorum in 12 volumi degli anni sessanta del Novecento (Città Nuova, Roma
1961-1969) nella sua quarta edizione del 1998. Circa i loro “patronati” ho
fatto riferimento al volume degli Indici della
stessa Enciclopedia dei santi (Roma
1970) nella quarta edizione del 1998, alle p. 293-348.
Cfr. rispettivamente P. Cannata, Teresa di
Gesù, ivi 12, p. 395-419; N. Del Re,
Raimondo Nonnato, ivi 11, p. 12-15.
Sull’immagine di Raimondo Nonnato si legge che fu creato cardinale nel 1317 con
il titolo della Chiesa Romana di Sant’Eustachio, come diceva la tradizione
agiografica che circolava tra i mercedari. Egli, in verità, non ricorre tra i
cardinali nominati da Gregorio IX come ha accertato A. Paravicini, Cardinali
di curia. “Familiae” cardinalizie dal 1227-1254, Antenore Ed., Padova 1972,
pp. 535. Vero è che quel papa fu chiamato a Roma e morì durante il viaggio nel
1240.
Luciano
Antonazzo, nel prelato mercedario raffigurato, ha voluto vedere lo stesso
vescovo ugentino Ludovico Ximenes, con argomentazioni non convincenti, Id., L’enigma di un dipinto nel santuario della
Madonna della Luce ad Ugento, in «Fondazione Terra d’Otranto» del 23 marzo
2011.
G. Arditi,
La corografia, cit., p. 634, si
tratta del cantore Giuseppe Colosso di Ugento (1812-1891), cfr. S. Palese – E. Morciano, Preti del Novecento, cit., p. 75; egli
era forse nipote del più noto Giuseppe Colosso (1745-1833) scrittore dotto di
storia ugentina (cfr. G. Ruotolo, Ugento-Leuca-Alessano. Cenni storici e
attualità, cit., p. 70).
L. Antonazzo,
Trasformazioni urbane a Ugento tra
Ottocento e Novecento, Leucasia ed., Tricase 2005, pp. 48 e 71.
ASDU, Archivio
del Capitolo di Ugento, Documenti 4, 10-12. Si tratta di una lettera a
stampa inviata a tutti i sacerdoti della diocesi con la quale chiese aiuto per
i necessari restauri.